Uno strano “scherzo” – ma era la verità – sorprese i cittadini di Sansepolcro il giorno dell’Epifania di 98 anni fa. L’inizio dell’anno 1927 è ricordato come quello in cui – seppure per pochi giorni – la città si ritrovò in provincia di Perugia (quindi nell’attuale Umbria) a distanza di quasi 500 anni da quel 1441 che aveva sentenziato il passaggio dallo Stato Pontificio alla Repubblica Fiorentina. Fondamentale, anzi decisivo, fu il ruolo esercitato in quel frangente dal vescovo diocesano storico, monsignor Pompeo Ghezzi, che si recò a Roma per trattare di persona la questione sotto la spinta della sollevazione popolare. Agli storici Andrea Czortek, Giuliana Maggini e Italo Marsicovetere il merito di aver trovato la preziosa documentazione, ricostruendo una vicenda che in parte può essere legata alla decisione presa in precedenza da Benito Mussolini di rivedere determinati confini e già adottata nel 1923, quando trasferì dalla Toscana all’Emilia Romagna i Comuni dell’Alto Savio perché voleva che all’interno della sua regione ricadessero le sorgenti del Tevere, il fiume caro ai destini di Roma.
Sono i giornali a diffondere la notizia il 6 gennaio 1927: i Comuni di Sansepolcro, Monterchi e Monte Santa Maria Tiberina, che fino a quel momento appartenevano alla provincia di Arezzo, erano passati a quella di Perugia. Per quale motivo? Dopo l’unità d’Italia, la provincia dell’Umbria era molto estesa e nel 1927 il territorio era diviso a sua volta in tre province, con le sedi ubicate a Perugia, Terni e Rieti. L’annessione dei tre Comuni sopra ricordati sarebbe stata pertanto giustificata dalla compensazione della perdita di territorio subita da Perugia. La sola idea di passare sotto Perugia scatena la protesta del popolo del Borgo, che si rivolge al vescovo Ghezzi perché faccia qualcosa al fine di far rimanere la città in Toscana. Attenzione, però! Dietro questa volontà di non passare in Umbria – e lo vedremo più avanti – non vi sono motivazioni di ordine meramente campanilistico. E siccome il provvedimento ha operatività immediata, prefettura e commissariato di pubblica sicurezza iniziano già le procedure per il passaggio alla provincia di Perugia, mentre il Comune si muove sul versante contrario, ossia per la revoca del decreto.
Il 9 gennaio è senza dubbio il giorno più movimentato: il prefetto di Perugia telegrafa al ministero dell’interno per confermare la designazione del podestà di Sansepolcro, già fatta dal prefetto di Arezzo, ma ancora non resa nota. Il regio commissario del commissariato di pubblica sicurezza di Sansepolcro telegrafa al prefetto di Perugia, consigliando la nomina di una «persona estranea al paese per stroncare beghe». Il sindaco, Italiano Giorni, indirizza al presidente del consiglio dei ministri il seguente telegramma, concludendo con la frase: «Qualora provvedimento sia indispensabile superiori interessi esprimonsi voti che passaggio venga decretato per intero mandamento poiché Sansepolcro separato mandamento rimarrebbe mutilato decapitato colpito mortalmente tutti suoi interessi materiali morali».
Ecco allora spiegato il vero motivo per il quale Sansepolcro non accettava il trasferimento in Umbria, mentre Monterchi e Monte Santa Maria Tiberina non si opposero. Sansepolcro aveva acquisito quelle prerogative di capoluogo di mandamento che con il passaggio sotto Perugia avrebbe perso, per cui al Borgo non vi sarebbero più stati pretura, tenenza dei carabinieri, commissariato di pubblica sicurezza, brigata della guardia di finanza, uffici delle imposte, del catasto e del registro e altri uffici periferici dello Stato che qui avevano sede e che sarebbero trasferiti ad Anghiari. Insomma, per Sansepolcro sarebbe stata una dura mazzata dal punto di vista economico. Per questo motivo il sindaco, appellandosi alla volontà di rispettare i «superiori interessi» nazionali, chiede al Duce che, qualora proprio il decreto non possa essere revocato, almeno si trasferisca in provincia di Perugia l’intero mandamento di Sansepolcro, al fine di evitare un sensibile declassamento economico che stava preoccupando gli amministratori locali. E sempre il 9 gennaio, una delegazione di cittadini arriva fino a Roma per incontrare il capo gabinetto del Ministero dell’Interno: il gruppo è formato dal sindaco Giorni, dal vescovo Ghezzi e da due imprenditori rappresentativi dei settori industriale e agricolo, il commendator Silvio Buitoni e il dottor Ugo Giovagnoli, più il conte Massimo di Frassineto, il commissario straordinario della camera di commercio di Arezzo e il segretario generale dell’unione industriali. Ma l’uomo chiave è il vescovo Ghezzi.
Il giorno seguente, 10 gennaio, il presidente della Deputazione Provinciale di Arezzo, Girolamo Ristori, scrive quanto segue al sindaco Giorni: «Raccogli quante firme poi [sic], ma evita qualunque forma di dimostrazione che potesse sembrare protesta». La Deputazione Provinciale non vuole dare l’idea di organizzare una protesta nei confronti del governo e quindi del regime. Non c’è insomma alcuna intenzione di andare contro l’esecutivo, per cui il vescovo diventa di fatto l’unico individuo dotato di libertà d’azione. La bella notizia arriva allora il 12 gennaio, quando monsignor Ghezzi telegrafa da Roma, annunciando che il decreto è definitivamente revocato. Sansepolcro rimane in provincia di Arezzo e, soprattutto, mantiene il ruolo di capoluogo mandamentale: questo era il vero obiettivo da salvaguardare, al di là del risvolto di ordine campanilistico che ha rivestito un ruolo senza dubbio più marginale. La riprova è data da ciò che avvenne quattro anni prima, quando lo stesso vescovo non fece obiezioni sul passaggio alla provincia di Forlì dei territori di Bagno, Alfero, Galeata e Santa Sofia; in quel caso, insomma, non era in gioco il futuro del mandamento.
A distanza di due soli giorni dalla revoca del decreto che “restituiva” Sansepolcro alla Toscana, il vescovo Ghezzi riceve la cittadinanza onoraria dall’amministrazione comunale: il 14 gennaio coincide peraltro con il 25esimo di sacerdozio del prelato. La motivazione del conferimento comprende ovviamente anche l’impegno dimostrato nella settimana precedente: “Quando apprese che Sansepolcro – il capoluogo della sua Diocesi – la culla di Piero della Francesca – di Fra Luca Pacioli – degli Alberti e di tanti altri geni che egli ha più volte esaltati – era minacciata di essere aggregata all’Umbria, partecipò con tutto il dolore e l’entusiasmo insieme alle manifestazioni che nei passati giorni fecero trepidare questa cittadinanza che voleva ad ogni costo rimanere toscana e senza esitazione – abbandonando di un tratto le cure del suo alto Ufficio – accettò l’incarico di recarsi a Roma – con i concittadini Comm. Silvio Buitoni e Dott. Ugo Giovagnoli – per perorare e scongiurare ad un tempo il provvedimento governativo che avrebbe determinato gravissimi danni alla nostra città. L’opera svolta con autorità e sollecitudine determinò la revoca della decretata disposizione”.
Un grande tributo umano era già arrivato al vescovo al suo ritorno da Roma, quando la popolazione lo aveva atteso di proposito e accolto come un trionfatore, considerandolo un figlio acquisito di questa terra, anche se comunque monsignor Ghezzi si sentiva tale in cuor suo. È bene poi evidenziare un altro aspetto: come anche traspariva dagli scritti di quel periodo, Sansepolcro era legata alla Toscana e non ad Arezzo, per cui stare in provincia di Arezzo era importante solo perché sarebbe stata l’unica maniera per rimanere in Toscana. Il rapporto fra Sansepolcro e Arezzo era nato con l’unità d’Italia, ma in precedenza non vi era stato alcun tipo di legame, né dal punto di vista istituzionale, né da quello ecclesiastico. Prova ne sia che nel 1925 si era parlato di ripristino del vecchio collegio elettorale uninominale di Sansepolcro, come era stato dal 1861 al 1882. Alla gente di Sansepolcro interessava il legame con Firenze più che quello con Arezzo; non c’era l’esigenza di trovare una identità propria, ma di definirla attraverso il rapporto con un’altra città. Soltanto dagli anni ’70 del secolo scorso ha cominciato sempre più a formarsi quella coscienza di vallata che ha finito con l’abbattere sul piano sostanziale il confine politico-amministrativo ancora esistente fra Toscana e Umbria nel comprensorio bagnato dal Tevere. I continui spostamenti che si verificano ogni giorno a livello scolastico, lavorativo ed economico hanno portato alla creazione di una grande comunità allargata che sta ragionando sempre più in un’ottica di realtà omogenea sotto praticamente tutti gli aspetti, tanto che l’appartenenza a due diverse regioni si è rivelata – in più di un caso – un fattore limitante.