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Dialetto tifernate, un autentico bene culturale immateriale

L’importanza storica e il valore identitario della parlata di Città di Castello

Dialetto come espressione della storia locale

In un paese come l’Italia la storia ha lasciato innumerevoli testimonianze. In molti casi queste conservano ancora una concretezza, pertanto sono facilmente osservabili e riconoscibili. Tuttavia i segni del passato possono talvolta essere privi di un’effettiva tangibilità: fanno parte di questa tipologia di beni culturali immateriali tutti quegli elementi che sono il risultato di una sedimentazione storica che manifesta i propri tratti distintivi attraverso le tradizioni, il folklore, le conoscenze, le abitudini e il modo di comunicare, ovvero la lingua e i dialetti.

Focalizzandosi su questi ultimi c’è innanzitutto da dire che ogni dialetto si identifica con la storia di un luogo specifico in quanto rappresenta il risultato ultimo della stessa. In linea di principio, le tante e molteplici parlate che caratterizzano l’Italia rivestono e manifestano, almeno potenzialmente, uno specifico valore identitario che però cambia in base a diversi fattori. Tra questi rientrano sicuramente l’effettivo livello di autenticità di un dialetto e il suo stato di conservazione. Proprio in considerazione di questi due elementi, non è difficile constatare che il dialetto tifernate, o castellano, ha tutte le carte in regola per essere uno straordinario esempio di bene culturale immateriale.

La particolarità del dialetto tifernate

In termini di autenticità la parlata di Città di Castello presenta caratteri molto particolari che sono innanzitutto il risultato di una complessa interazione storica di popolazioni gallo-italiche, umbre ed etrusche. Nonostante la latinizzazione al tempo dei romani e la lunga trafila evolutiva che prima ha dato origine ai volgari, poi li ha modificati con gli influssi che arrivavano dal territorio circostante (quindi da Perugia, Arezzo e dall’area marchigiana-adriatica), il dialetto tifernate ha saputo fare delle contaminazioni la sua principale essenza. Un modo di parlare che ancora oggi, distinguendosi da tutti quelli circostanti, riesce a esprimere non soltanto la ricca stratificazione di un luogo, ma anche la sua particolarissima posizione geografica.

Tutta l’Alta Valle del Tevere, del resto, convive da sempre con una condizione territoriale che, nello specifico, è quella di un’area di confine in cui marginalità e centralità hanno sempre saputo coesistere grazie agli impulsi vitali dei traffici commerciali e delle contaminazioni culturali. Nonostante ciò, nessun altro dialetto di questo bacino territoriale può, al giorno d’oggi, vantare una ricchezza che, in termini di usi linguistici, possa essere equiparata a quella del castellano. Proprio attraverso questa considerazione è dunque possibile rendersi di un altro dato piuttosto eccezionale, ovvero quello che a Città di Castello i profondi cambiamenti socio-culturali che hanno animato il Novecento non hanno alterato più di tanto il modo di parlare delle persone.

Lo stato di conservazione del castellano

Come accennato sopra, questo secondo aspetto che ha a che fare con il livello di conservazione non può che contribuire a fare del dialetto tifernate un esempio emblematico di bene culturale immateriale attraverso il quale una comunità si può riconoscere, in maniera viva, nei suoi più profondi capisaldi identitari. Tutte le altre parlate dell’Alta Valle del Tevere presentano infatti peculiarità meno marcate, dato che a nord, nell’abitato di San Giustino e negli altri comuni toscani, la crescente influenza aretina ha attenuato sensibilmente alcuni usi linguistici che, seppur in maniera diversificata, avevano forti legami con il tifernate: rientrano tra questi la pronuncia di alcune vocali chiuse in maniera aperta (es. strètto invece che stretto) e quella di alcune aperte in maniera chiusa (béne invece che bene), la tendenziale sostituzione della “A” in “E” (es. chèsa invece che casa) e l’utilizzo di alcuni suoni consonantici come la cosiddetta “S” che in alcuni casi si avvicina al suono “SC”, o la “G” che in determinate circostanze diventa quasi una “Z”.

A tutto ciò si deve poi aggiungere l’utilizzo di alcune parole specifiche del posto, capaci ancora oggi di riallacciarsi a termini latini (es. gire, ito invece che andare o andato) o conferire coloriture e sfumature semantiche al discorso diretto (come ad es. fiolo, frego e frègno, o il pressoché intraducibile verbo argovire).

In altre parole, con la sua particolare parlata, Città di Castello ha mantenuto usi linguistici che, invece, si sono fortemente ridimensionati altrove. Nel prossimo articolo si cercherà dunque di comprendere quali variabili potrebbero avere influenzato i diversi processi di evoluzione e conservazione dei dialetti dell’Alta Valle del Tevere.

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