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A veglia sui bastioni della Valtiberina tra ricordi, rievocazioni… e il ‘Badalischio’

Un’occasione conviviale fa riemergere ricordi di fanciullezza, trascorsa in campagna, fra racconti, ottava rima e l’avvistamento di un mostriciattolo.

Ci sono incontri, momenti, circostanze che ti riportano alla mente situazioni vissute nella tua infanzia, seppur rievocate in contesti diversi da quelli originali. A me è capitato partecipando un venerdì d’inverno a Badia Tedalda a “Venolta”.

Venolta è una parola che riassume una frase in dialetto romagnolo traducibile in italiano con: vieni avanti, letteralmente “vien oltra” nel dialetto contadino nostro dove l’espressione poteva assumere significati diversi a seconda delle situazioni, dall’invitante al minaccioso.

La manifestazione, che aveva per sottotitolo: “Piccolo Festival Interregionale dei balli e delle musiche popolari di confine”, voleva essere contatto e recupero della tradizione orale e del patrimonio immateriale fra Romagna e Toscana.

La serata ha visto quello che, a mio parere, era il motivo principale che aveva indotto i promotori romagnoli ad includere nella manifestazione Badia: il raro video del protagonista di una delle opere più note di Tonino Guerra: il poemetto dialettale “L’Orto di Eliseo”.

Il Socrate della Valmarecchia

Provo un sottile sentimento d’invidia per certi romagnoli  di sabbia, quelli operosi che abitano in riviera e che, forse ispirati dalla vastità del mare, riescono a percepire il poetico, il meraviglioso, anche dove noi toscani vediamo solo qualcosa di rustico e trascurato. È così che Eliseo Tizzi, abitante a Ranco, frazione di Badia Tedalda, descritto da un suo vicino di casa, mio commensale quella sera, come personaggio burbero al limite del litigioso, diventa, agli occhi di Tonino Guerra, il “Socrate della Valmarecchia”, coinvolto in un’epica lotta con una talpa per difendere il suo orto.

Gualtiero Gori, a sua volta scrittore e noto ricercatore etnico romagnolo, originario di Igea Marina, ricordando quella sera il vecchio contadino solitario, ha parlato di quando, sulle orme del poemetto, lo andò a trovare riprendendolo con la telecamera mentre suonava la fisarmonica e raccontava storie, Eliseo era descritto come una specie di santone contadino in grado di far crescere piante da orto in qualsiasi posto. La realtà del personaggio nel quotidiano era sicuramente diversa come testimoniato quella stessa sera dalla nipote di Eliseo, presente pure lei a quell’appuntamento, che ha parlato di suo nonno, seppur in tono benevolo, come persona mal disposta a farsi contraddire, cosa di cui sia lei che suo padre, figlio di Eliseo, in una occasione, avevano pagato conseguenze verbali molto aspre da parte del vecchio.

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Eliseo Tizzi (foto di Tonino Guerra)

Certo, a vederlo nel video, presentato con enfasi quella sera da Gori, “Liseo” (come veniva chiamato in loco) appariva, se non affabile, almeno ben disposto ad accontentare l’ospite che, incantato, lo stava riprendendo.

Al cospetto del ricercatore di Igea Marina: il comportamento accondiscendente di Eliseo, così diverso dall’atteggiamento rilevato dai suoi compaesani, era caratterizzato da alcuni fattori. Il primo: l’accoglienza tipica di chi, in campagna, incontra gente nuova; il secondo: la ritrosia del contadino a mostrarsi per quel che veramente è e terzo (e più rilevante) il desiderio di esibire i propri talenti di fronte ad una persona ritenuta molto importante anche perché in possesso di un marchingegno che forse lui non aveva mai visto prima.

Malgrado siamo vicini di casa, malgrado che. per 600 anni metà Romagna, quella montuosa e collinare, abbia fatto parte del Granducato di Toscana prima e della nostra regione poi, non c’è, a mio parere, grande comunicazione epidermica fra le due culture, intendo fra i romagnoli delle zone vicine al mare e i toscani in generale. Il fatto è che noi non vediamo le cose con occhi visionari; le filtriamo attraverso l’ironia, al meraviglioso preferiamo la presa in giro anche greve, cosicché, quando a volte un romagnolo attivo e sognatore incontra un toscano, caustico e sboccato, non sempre le due anime riescono ad interagire (andare alla nota: “La Voce della Luna”, film nel quale un Fellini meno ispirato rispetto ai suoi capolavori per quanto sempre onirico e un Benigni, ingabbiato in un lessico lontano dal suo gergo, danno il risultato di un fuoco d’artificio intriso d’acqua). Non che noi toscani non sappiamo essere poeti, ma ai versi’elegiaci preferiamo quelli d’impegno civile. (Dante docet)

“Vieni a veglia”

Le cose cambiano quando andiamo a prendere in considerazione la cultura contadina in entrambi i versanti dell’Appennino tosco romagnolo; un patrimonio materiale e intellettuale che si è nutrito degli stessi riti, degli stessi gesti, dettati dal succedersi delle stagioni, stesse attività affrontate in modo analogo: semina, raccolta, trasformazione. Lavoro quotidiano duro e costante per tutto il corso dell’anno e alla sera, soprattutto nella stagione fredda, fatto di veglie intorno al fuoco del camino, spesso allargate ai propri vicini con i quali magari, durante il giorno si era collaborato ai lavori nei campi.

D’altronde l’invito: “Vieni a veglia” rivolto a conoscenti, coadiuvanti, persone del vicinato, era talvolta il pretesto per condividere i frutti del proprio lavoro, dall’assaggio di formaggi a quello del vino novello ad esempio e spesso gli ospiti portavano i propri come contropartita; una specie di pagamento in natura per sdebitarsi dell’invito.

Sono, anzi, erano situazioni viste attraverso gli occhi di un bambino, quelle che mi sono tornate alla mente ascoltando la lettura di brani dal libro “A Veglia dalla Bice” scritto qualche anno fa da Marta Bonaccini che, in questa pubblicazione, aveva raccolto la testimonianza dell’anziana contadina di Badia. Ad ogni frase ascoltata dalle voci di Medelin Rossi, Ermanno Dori, Emanuele Orcese e Luigina Bragagni,rappresentanti della pro Loco di Badia Tedalda, ritornavano vivide nella mia mente le situazioni descritte, da me vissute in infanzia. Bastava ad esempio udire la parola “scartocciare” per farmi tornare il ricordo del gran numero di pannocchie appese ad essiccare in fila a lunghi pali issati attraverso l’alto soffitto della grande cucina di mio nonno, fin quando non giungeva il momento di mondarle dalle poche foglie rimaste e a mano o con uno zipolo di legno, sgranarle, setacciarle e riporre i chicchi di mais in sacchi di iuta. A quel punto iniziava la parte più “avventurosa”.

Mio nonno, attaccati i buoi al carro carico dei sacchi di granturco, mi faceva salire e dato che Il podere sorgeva su una falesia a strapiombo sul torrente, in fondo alla quale, per una strada piuttosto ripida, si arrivava al mulino, a me pareva di fare un viaggio verso un posto meraviglioso dove mi aspettava una bambina che abitava lì vicino e con la quale giocavo mentre il mais veniva macinato. Poi dopo il viaggio di ritorno, arrivava il momento di cucinare la prima polenta con la farina nuova. A me piaceva, fritta in giorno dopo, sentirla scrocchiare nella crosta e avvertire il bruciore sulla lingua per quanto era bollente l’interno morbido.

Le veglie erano anche l’occasione per affascinare i più piccoli con storie come quelle sentite recitare quella sera dalle voci dei componenti della Pro Loco di Badia, racconti che parlavano di oscure, paurose presenze nei boschi circostanti, ascoltando le quali mi è tornato alla mente il “badalischio”, leggendario animalaccio si dice avvistato, come testimoniato dal racconto di varie persone rintracciabile su YouTube, nella valle casentinese situata nei pressi del podere di mio nonno, rettile mitico del quale parlavano i vecchi mettendo noi bambini in guardia quando ci recavamo nel bosco. Ora, io non so bene cosa fosse, ma, andando a zonzo per il podere, un animale strano l’ho incontrato pure io, lungo circa un metro, con cresta e zampe tozze, probabilmente un’iguana scappata da chissà dove, forse da un circo, e a distanza di oltre 60 anni ne ho tutt’ora un vivido ricordo, così come ricordo bene di essere fuggito a gambe levate davanti ad una simile apparizione.

Ma, oltre alla strana bestia, i racconti dei vecchi intorno al fuoco erano per lo più ricordi personali della guerra mondiale; non la seconda, ancora troppo vicina nel tempo e per molti aspetti così dolorosamente vissuta le cui ferite morali e distruzioni materiali erano ancora fresche, ma della grande guerra, quella del 15-18, alla quale molti di loro avevano preso parte. Anche in quel caso però si prediligeva ricordare episodi secondari della vita al fronte rispetto alla partecipazione alle battaglie sostenute.

Della seconda guerra mondiale l’unica che allora me ne parlava era mia madre ricordando come suo padre, mio nonno, avesse messo in fuga un gruppo di ragazzotti vestiti di nero che, messisi in caccia dei partigiani che operavano nella vicina montagna, si erano fermati nella cascina minacciando di ucciderlo perché a loro parere, assisteva il nemico e poi approfittando da gradassi delle vettovaglie della cantina. O come quando, a conflitto appena finito, mio nonno si era coraggiosamente inoltrato in un vicino campo minato per recuperare il corpo di un suo nipote che era morto saltando su un ordigno.

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E per finire in bellezza: ottava rima

Mia madre era un bello spirito; ricordo che per addormentarmi non mi cantava ninne nanne ma intonava versi dell’ottava rima toscana che aveva imparato a memoria, capirete quindi l’assalto di nostalgia che mi ha assalito quando Stefano Rossi e Angelo Montini, badiali doc, alzatisi dal tavolo, hanno iniziato il loro antico “dissing” in rima. Se il loro primo intervento era stato molto pacato, limitandosi ai saluti ai commensali e agli organizzatori della serata, il secondo ha mostrato quanto possa essere graffiante l’ottava rima se destinata, anche se in modo piacevolmente arguto, ad offendersi reciprocamente riguardo i rispettivi menage familiari, nel più puro spirito toscano, ma il meglio i due lo hanno dato quando, costretti a intonare una vecchia canzone popolare a doppio senso, riscritta in maniera ammorbidita sul foglio che ci era stato consegnato, Stefano e Angelo hanno coinvolto i convitati facendo intonare la versione ben più sboccata del brano ma sicuramente più fedele all’originale, per poi scatenarsi in cori da osteria per quelli che sono stati i saluti finali. Un’atmosfera genuinamente ruspante nella quale la spontaneità locale alla fine ha dimostrato che la tradizione resta più viva che mai.

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