La fine della mezzadria in Alta Valle del Tevere e l’abbandono dei poderi

L’eredità storica, sociale e paesaggistica di un contratto agrario che ha segnato il profilo identitario dell’Italia centro-settentrionale

Il paesaggio rurale valtiberino – così come, più in generale, quello toscano, umbro e marchigiano – porta ancora oggi con sé i segni di una secolare interazione tra uomo e ambiente. Quest’ultimo è infatti stato modellato da esigenze economiche proprie di un lungo lasso di tempo che va dal basso medioevo, fino alla seconda metà del secolo scorso.

La formula che per tutti questi secoli ha definito l’assetto sociale ed economico di molte aree rurali dell’Italia centrale è quella della mezzadria, un contratto agrario attraverso il quale il proprietario concedeva un podere, quindi di un terreno con relativa dimora abitativa, a una famiglia contadina di coloni. In cambio di ciò questa doveva quindi garantire al concedente una parte dei prodotti, normalmente la metà (da cui il termine “mezzadria”), che lo stesso era in grado di generare. Da un punto di vista storico, questo modo di sfruttare le possibili vocazioni offerte da una natura non sempre generosa (si pensi alle aree più aspre poste ai piedi della catena appenninica), risale al periodo feudale, anche se una larga diffusione dei contratti mezzadrili si ebbe soprattutto in seguito alle trasformazioni economiche e sociali che si susseguirono al drammatico periodo della peste trecentesca.

Rispetto a una condizione di servitù medievale da un lato e la moderna gestione capitalistica delle aziende agricole dall’altro, la mezzadria si colloca idealmente a metà strada. Proprio questa particolare dimensione baricentrica ha nei secoli consentito di generare rilevanti conseguenze economiche, sociali e paesaggistiche. I proprietari fondiari hanno sicuramente avuto modo di ricavare proventi e accumulare ricchezza da reinvestire, almeno in parte, nel patrimonio immobiliare, nella campagna o, dopo la rivoluzione industriale, in nuove attività produttive. Allo stesso tempo con la mezzadria anche coloro che non possedevano nulla hanno potuto trarre sostentamento attraverso il proprio lavoro, sviluppando in certi casi quel minimo di attitudini gestionali che servivano a organizzare la produzione del podere.

Di contro è tuttavia innegabile che la mezzadria abbia nel tempo alimentato anche un malcontento che poi, nel Novecento, ha acquisito consistenza, trasformandosi in rivendicazioni da parte dei coloni. Ciò, come rilevato dallo storico Mario Sbriccoli, avvenne quando all’inizio del secolo scorso iniziò a diffondersi la consapevolezza che il contratto di mezzadria definiva rigidamente lo status del mezzadro, imponendo lui limitazioni anche di natura personale: questi, assieme a tutta la sua famiglia, si trovava infatti a dedicare molti segmenti della propria vita privata a prestazioni extracontrattuali che, di fatto, finivano con il legarlo subordinatamente al proprietario (che, non a caso, veniva chiamato padrone). Una forma di soggezione che poi si è progressivamente attenuata attraverso la nascita di una coscienza di classe che, sia in Valtiberina che in molte altre aree dell’Italia centro-settentrionale, ha probabilmente anche contribuito a diffondere una certa cultura politica che, fino a qualche anno fa, è stata alla base delle cosiddette regioni rosse.

Come accennato sopra, la mezzadria ha lasciato una forte impronta nei paesaggi rurali delle zone in cui era diffusa. In tutta l’Alta Valle del Tevere, gli investimenti dei proprietari terrieri e, sopratutto, il lavoro dei mezzadri, ha portato a un’organizzazione del territorio che ancora oggi lascia emergere diversi suoi segni. Sia nel fondovalle della piana del Tevere che nelle aree collinari, la fitta rete di poderi garantiva ovunque un presidio umano e una relativa opera di manutenzione: interventi di regimentazione idraulica, di contenimento dei versanti (come i muri a secco), di mantenimento delle strade e delle vie di accesso agli appezzamenti, di cura degli uliveti, delle vigne, del bosco e delle alberate (con le relative consociazioni), hanno letteralmente plasmato il territorio, conferendogli un aspetto armonioso che ne è diventato il tratto distintivo.

La fine della mezzadria in Alta Valle del Tevere e l’abbandono dei poderi - Storia, Cultura | TTV.it
Il territorio di Sansepolcro in una carta del 1731 da cui si evince quanto la mezzadria abbia contribuito ad antropizzare l’area del contado.

Nella sua veste discreta e diffusa, buona parte di questo patrimonio identitario è ancora adesso visibile, anche se l’avvento della società contemporanea lo ha, negli ultimi decenni, fortemente compromesso. Dopo la fine della mezzadria – collocabile tra il 1964(anno in cui fu vietata la stipula di nuovi contratti) e il 1982 (quando se ne decretò la conversione a canoni d’affitto) – diversi appezzamenti della piana sono stati inglobati nelle aree urbanizzate o riordinati secondo le esigenze di un’agricoltura sempre più meccanizzata; tutto questo mentre nei versanti collinari, in maniera proporzionale alla quota altimetrica, moltissimi terreni sono stati abbandonati, lasciando spazio al bosco e all’incuria. Se in passato, dunque, la campagna valtiberina era scandita dall’ordine composito ed equilibrato di un’organizzazione agraria sostanzialmente promiscua, oggi questa si trova, in molti suoi tratti, a trasmettere un’immagine di sé decisamente piatta e trasandata. La stessa sorte, del resto, è accaduta alle case coloniche e ai relativi annessi: sopratutto in quelli che erano i poderi delle quote più alte, o delle zone più difficili da raggiungere, il patrimonio edilizio e architettonico in moltissimi casi appare alquanto danneggiato. In questi luoghi dimenticati dal presente, dei possenti muri di pietra che un tempo andavano a racchiudere e incorniciare la vita di intere famiglie, non è rimasto che qualche rudere.

La fine della mezzadria in Alta Valle del Tevere e l’abbandono dei poderi - Storia, Cultura | TTV.it
La casa colonica del Bastione in stato di abbandono.
- Partner culturale -spot_imgspot_img