In un mondo in cui la musica è un prodotto commerciale frutto di mestiere, fare un album al di fuori delle dinamiche di mercato è una scelta, se non folle, quantomeno coraggiosa. Luca Romagnoli, frontman della band Management, venerdì 6 dicembre ha presentato il suo primo album da solista La Miseria presso il Teatro della Misericordia di Sansepolcro. Il lavoro nasce in un momento di pausa dal progetto principale dei Management, fondato a Lanciano, in Abruzzo, nel 2006 insieme a Marco Di Nardo; si origina da un’esigenza sia umana che pratica: “Tutti abbiamo bisogno di lavorare e io non so stare fermo senza fare niente – dice Romagnoli – sentivo il bisogno di fare qualcosa e ho voluto provare questa nuova sfida”.
Il titolo
Il disco, realizzato insieme a Fabrizio Cesare, già produttore di Nicola Pomponi detto Setak, che ha partecipato alla scrittura di due canzoni, è un melange di influenze differenti, sia dal punto di vista testuale che musicale, che vanno poi a convergere su un prodotto luminoso nella sua malinconica disillusione. “La miseria è la vita spogliata della vita” ha scritto Romagnoli sul suo profilo Instagram, aggiungendo poi dal vivo: “La miseria è un posto dal quale tu puoi guardare il mondo senza farne parte, senza farti sporcare, perché avendo deciso di vivere ‘miseramente’, secondo gli altri, da fuori tu puoi lavorare sulla tua purezza”.
Il concept
Ennio Flaiano, scrittore abruzzese come Romagnoli, nel suo Frasario essenziale per passare inosservati in società, scrisse: “Chi vive nel nostro tempo raramente sfugge alle nevrosi. Per vivere bene non bisogna essere eccessivamente contemporanei”, e la frase è quanto mai calzante perché il coraggio di essere inattuale è una caratteristica saliente tanto del frontman dei Management quanto dello sceneggiatore de La dolce vita.
Prodotto da La Tempesta Dischi, l’album si compone di 11 brani, ed è stato anticipato dai singoli Perdere e Bi emme vù, adattamento in musica di una poesia di Paolo Maria Cristalli.
La presentazione è stata organizzata dallo staff di Effetto K, ma la produzione dell’album è legata a doppio filo alla Valtiberina. In estate, Romagnoli ha girato anche il videoclip del singolo Perdere nel Comune di San Giustino.
Tutte le province si somigliano, ma questo non significa siano tutte uguali. Tu hai scelto San Giustino come set per i tuoi videoclip e Sansepolcro come luogo per presentare l’album. Cosa ti ha portato qui in Valtiberina?
Perché abbiamo lavorato con i ragazzi di Itm che sono di San Giustino. I primi due videoclip, Perdere e Bi emme vù sono stati girati lì. Poi Abbiamo girato Il Nulla, che faremo uscire prossimamente, proprio nel Teatro della Misericordia, e ci sembrava giusto presentare l’album qui. Inoltre “miseria” e “misericordia” hanno la stessa radice e ci sembrava una scelta simbolica.
Cosa ti affascina di questi luoghi?
Una cosa c’è. Sul finire della Seconda Guerra Mondiale c’era questo comandante alleato (Anthony Clarke) che aveva ricevuto l’ordine di bombardare Sansepolcro. Lui da giovane aveva studiato ed era un grande appassionato d’arte. Possedeva con sé un libro sul Rinascimento e aveva visto che la Resurrezione di Piero della Francesca era custodita qui. Egli rifiutò un ordine diretto dalle alte sfere dell’esercito dicendo: “Non posso bombardare questa città. Io non bombarderò Sansepolcro”. Questo è un bellissimo motivo per essere qui, e anche per svegliarsi domattina e andare al museo.
La miseria a volte è anche la fortuna?
Sì assolutamente, la miseria che abbiamo intorno a noi è la miseria della contemporaneità che abbiamo sviscerato. Nello stesso tempo però si può guardare da un altro lato, perché la miseria è un posto dal quale tu puoi guardare il mondo senza farne parte, senza farti sporcare, e così facendo tu puoi lavorare sulla tua purezza.
La Miseria è un album carico di emozioni forti, di critiche verso il nostro mondo e la società in cui viviamo. Ti senti più leggero dopo che hai affrontato certi argomenti nel disco?
In realtà no. Credevo, come nella pratica psicoanalitica, di liberarmi parlandone, ma ho scoperto, lavorando su questo tipo di tematiche, che io tendo sempre all’ossessione, e alla fine ci sprofondo dentro. Quindi ho paura di concentrarmi troppo sui miei pensieri. Però ho ricevuto un ottimo consiglio da un amico: mi ha detto di fare un lavoro che guardi tutto questo dall’esterno. Questo disco è un racconto del pensiero sul pensiero, sul malessere di questo mondo e sulle persone privilegiate che siamo noi che viviamo in Occidente. Ho fatto di tutto per non essere contemporaneo. Volevo posizionare questo disco al di fuori delle dinamiche modaiole e l’idea dei numeri e del fantomatico successo. Ricordo una citazione famosa di Roland Barthes che dice: “D’un tratto non mi fa più né caldo né freddo non essere moderno”.
Quali ascolti ti hanno ispirato per scrivere questo disco?
Noi che siamo entrati nell’Indie e ne siamo un po’ fuoriusciti, abbiamo fatto parte di una piccola moda e di una piccola modernità. Adesso finalmente siamo fuori moda, possiamo tranquillamente fare quello che vogliamo. Se devo dire un mondo a cui non dico di essermi ispirato ma istintivamente di essermi avvicinato è quello di Piero Ciampi, di Battiato, Battisti, Dalla, De Andrè, ma solo così per amori passati che tornano sempre…
Un ragazzo qualche tempo fa ha accomunato la mia canzone Fatturare ad Andare camminare lavorare di Piero Ciampi. Son quelle cose che tornano, i primi amori, non ascolto più niente di attuale, soprattutto di italiano. Se proprio devo dire un artista che mi piace molto a livello internazionale, che non è più giovane, ma che lavora ancora tanto e bene è Damon Albarn, il migliore di tutti per me adesso.
In un mondo in cui si sono riuniti gli Oasis, tifare Damon Albarn è davvero il coraggio di essere inattuali.
Damon Albarn solista eh, precisiamo.
Questo album affronta argomenti cruciali ed è carico di sofferenza. Hai avuto timore a dire o pensare anche metaforicamente certe cose?
A volte scopro che parlare troppo del dolore non mi cura ma mi fa più male, quindi un po’ di paura sì, ma di cascarci dentro! Ho fatto un lavoro con me stesso che forse sta funzionando, però è l’unico modo in cui riesco a scrivere. Non riesco a tirarmi indietro: quando comincio mi rendo conto che supero la soglia del non ritorno, e a quel punto sai che non ti conviene più tornare indietro perché ci hai messo i piedi dentro ed è troppo tardi, quindi devo completare per forza quanto cominciato.
Dire ciò che si pensa non è gratis: costa a livello emotivo, e costa anche in termini di pubblico, che a volte capisce e ti ripaga e altre, invece, semplicemente non era pronto. Ascoltando Perdere si percepisce la verità da parte di qualcuno che te la dice col cuore in mano. La canzone ha due versioni, acustica e elettronica: com’è interpretare un brano in chiavi differenti?
Fa ridere perché l’ho cantato una volta sola e messo su tutt’e due! *ride*. Abbiamo lavorato non ricordo su quale versione per prima, ma ricordo bene il momento esatto in cui in studio abbiamo capito che poteva avere due concezioni. Quella acustica è più scheletrica, ti tocca un po’ più l’anima, ma all’interno del disco che è prodotto in un certo modo volevamo far sentire anche la pienezza di questo sentimento che non per forza è tristezza. La versione acustica può avvicinarsi al sentimento della malinconia, mentre la versione elettronica ha anche quella parte che dovrebbe farti ragionare anche sull’altra prospettiva: prendere a spallate la sofferenza e uscirne, non per forza godersi ‘sta tristezza. Io di quest’epoca non amo la fragilità come valore, non mi piace per niente. Quindi io parlo della mia sofferenza ma non considero tristezza malinconia fragilità tristezza un punto di merito, è un racconto e basta.
L’album sembra quasi un armistizio, una rinuncia a combattere. Hai paura del feedback del pubblico?
David Bowie diceva: “never play for the audience”. Effettivamente sì: è un armistizio, ma non una resa, poggio le armi dico “non ho piu voglia di combattere perché ho trovato un’altra via che mi rende più sereno”. È quella di evitare di gareggiare dove non ce n’è nessun motivo. Questa società c’impone di essere tutti concorrenti di questo gioco che non si capisce. Io non devo gareggiare contro nessuno. Proporre qualcosa senza pretendere di superare un record risponde alla domanda: considerare l’affetto del pubblico come una vittoria? Sì, mi fa contento, ma non è la cosa che mi spinge a scrivere. Paradossalmente più persone sono in disaccordo con me, più mi rendo conto che sto seguendo una strada particolare, più difficile ma forse più giusta. Quella dove forse tenti di dire qualcosa che sfugge un po’ alla banalità.
Sicuramente una strada in salita
Il pubblico non vuole le cose complesse, poco ma sicuro.
I Management sono un progetto musicale con una carriera importante: grandi palchi, 6 album in studio e un Ep, 18 anni di sodalizio artistico. Cosa ti ha spinto a portare un lavoro firmandolo a tuo nome?
Potrei dare tante risposte false in una certa percentuale. La risposta più vera è che io faccio questo per vivere. Noi ci siamo presi due anni di pausa e io per questioni sia vitali sia economiche e mentali ho bisogno di fare qualcosa. Mi sono espresso per la necessità di esprimermi, per avere la possibilità di dire altre cose, perché comunque è la storia di una persona che la fotte, e poi perché la gente dopo un certo punto si aspetta qualcosa da te. Qui avevo la possibilità di ripartire da zero, di tornare alla fase originaria, e ripartire con una storia ed essere libero al 100%. È una cosa bella, che secondo me influenzerà anche la band quando torneremo.
Quando è uscito il suo primo album, è stato chiesto a Manuel Agnelli perché avesse lanciato un progetto solista a quasi 60 anni. Lui disse: “Perché mi ero stancato di essere il chitarrista rocchettaro degli Afterhours. Io ho fatto conservatorio, sono un pianista diplomato e voglio far vedere che so fare anche altre cose. In questo progetto tu hai messo delle cose che non avresti potuto mettere nei Management?
Io fortunatamente non so fare niente, non devo dimostrare altre cose (ride), ci sono cose che forse (lo dico col senno di poi) arrivano più precisamente se tu dici io e ti prendi la responsabilità piena di quello che dici. Chiaramente all’interno di una band, il gruppo ha una forza, tu parli per tutti, quindi ti dividi la responsabilità. Per certi versi è piu semplice, ti senti protetto da qualcuno, da un sound, dalle persone. Quando una cosa la dici da solo, se è pericolosa, forte, triste ti prendi la piena responsabilità di quello che dici e forse è anche un processo di crescita per completare una maturazione che, a una certa età (io tra poco faccio 40 anni), uno deve prendersi una responsabilità per un certo periodo. Poi si tornerà anche col gruppo.
Nel 2024 quanto conta dire la propria nei dischi? Ti sei sentito vincolato nell’esprimere le tue opinioni?
Se la guardiamo dal lato del pubblico, dire la propria non conta un cazzo, perché tanto non frega niente a nessuno. La questione è che se uno ha bisogno di fare una cosa la fa, se uno non ne ha bisogno fa un’altra cosa. Siccome il mondo della musica e dell’arte in generale è molto difficile ed è praticamente impossibile arrivare dove vuoi, soprattutto se hai una tua via e non vuoi adattarti, continui solo se per te è una questione di vita o di morte, altrimenti ti fermi come fa tanta gente. Senza l’esistenza di questo disco il mondo avrebbe continuato a girare, tutti sarebbero stati ugualmente felici o tristi. Mi sono posto forse con questo disco di arrivare a meno persone possibili. Tanto va sempre tutto male, non c’è problema, sono abituato, non vi preoccupate per me.
Un grazie ad Haron Dini per la complicità e il supporto in questa intervista.