Una data storica, quella del 10 dicembre. Esattamente 76 anni fa, nel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documento che consta di 30 articoli e il cui testo, su volontà del segretario generale dell’Onu, venne pubblicato non soltanto nelle cinque lingue ufficiali, che erano cinese, francese, inglese, russo e spagnolo. Perché si arrivò a compiere questo passo? La seconda guerra mondiale era da poco finita e la necessità di costruire un mondo di pace, di libertà e di giustizia era forte. Era pertanto fondamentale rimettere al centro dell’attenzione la dignità dell’uomo e il riconoscimento dei diritti fondamentali e inalienabili che rendono uguali tutti gli uomini (senza alcuna distinzione) e che consentono loro di essere liberi di esprimere opinioni e di professare il loro credo. Per fare questo, era necessario che tali diritti fossero garantiti e protetti da norme giuridiche, al fine di evitare la ribellione contro la tirannia e l’oppressione.
Gli Stati membri dell’Onu si erano impegnati a perseguire il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali, per cui la dichiarazione diventa l’ideale da raggiungere per tutti i popoli e per tutte le nazioni. Il cardine è come sempre costituito dall’articolo 1, che dice: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Alla stesura della dichiarazione si arrivò dopo un percorso di oltre un secolo, riprendendo i principi della Bill of Rights, della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America e in particolare della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino stesa nel 1789 durante la Rivoluzione francese. Esito finale: 48 voti favorevoli su 58 e 2 Paesi non presero parte al voto, però non vi furono voti contrari, anche se vennero subito a galla determinate criticità legate a singoli Stati e a sistemi filosofici ed economici che impedirono di fatto l’applicazione della Dichiarazione in determinati contesti.
Come già implicitamente ricordato, otto Stati si astennero e altri espressero forti riserve. Comunque sia, il documento è stato la base di molte conquiste civili del XX secolo. Fra gli astenuti, c’erano il Sudafrica e l’allora Unione Sovietica; per il primo è ipotizzabile il tentativo di protezione dell’apartheid, in contrasto con i principi della dichiarazione, per il secondo i problemi erano le libertà di parola, riunione, associazione e stampa. In questa occasione, emerse come il sistema sovietico, così come la sua Costituzione di recente approvazione, prevedessero libertà di espressione solo in conformità con gli interessi dei lavoratori e per rafforzare il sistema. Altra criticità era rappresentata dalla libertà di culto (futuro articolo 18); nel sistema socialista, comunità religiose e Chiese erano osteggiate, la dottrina marxista rifiutava la credenza nel soprannaturale. Scarsamente rappresentato nell’Assemblea fu il mondo arabo musulmano. Solo una parte dei Paesi arabo-musulmani si oppose alla dichiarazione e oggi non mancano intellettuali che affermano l’esigenza di un nuovo islam aperto al dialogo con le altre culture. Il problema sorse principalmente dal fatto che, mentre nella Dichiarazione il fondamento del diritto era rappresentato dall’uomo, nel diritto musulmano il solo legittimato a regolare i rapporti tra gli individui era Allah. L’Arabia Saudita non sottoscrisse il documento e fornì delle motivazioni.
Il raggiungimento di un accordo sulla dichiarazione nel 1948 fu ostacolato da due fattori: il dissenso su alcuni capisaldi (principio di uguaglianza, libertà di coscienza e di contrarre matrimonio) e la diversa natura dei sistemi di diritto. In particolare, oggetto di dibattito furono l’articolo 16 (che stabiliva la libertà di contrarre matrimonio senza limitazioni religiose) e l’articolo 18 (sulla libertà di culto), entrambi in contrasto con la legge islamica. La Cina aderì, anche se il filosofo Chung-Shu Lo sosteneva che una completa condivisione dei principi fosse ostacolata dal diverso concetto etico delle relazioni sociali e politiche. I rapporti umani a fondamento della convivenza cinese si basavano sul dovere nei confronti del prossimo, piuttosto che sulla rivendicazione di diritti soggettivi. Chung-Shu Lo propose una sua versione della Dichiarazione. Il primo diritto dell’uomo era quello di vivere. In linea con la filosofia confuciana e la dottrina comunista, Chun-Shu Lo affermava che il riconoscimento di un diritto a un individuo doveva essere bilanciato da un dovere verso la società. L’uomo doveva vivere con un senso di dignità contribuendo al benessere e al progresso della società, e a questo scopo doveva godere di un diritto all’auto-espressione.
A causa delle controversie emerse dal dibattito, diversi autori considerano la dichiarazione eurocentrica. Sebbene le controversie attorno ad essa siano andate a scemare con il progressivo avanzare, negli anni, della cultura occidentale nel resto del mondo, il dibattito filosofico rimane tutt’oggi acceso. Resta il fatto che, nonostante l’enunciazione di principi validi a ogni latitudine e tendenti a uniformare i diritti dell’uomo su un piano universale e a garantire una vita fondata su libertà, dignità e rispetto reciproco, a distanza di quasi 80 anni si parla ancora di guerra nel mondo con due situazioni in contemporanea che sono in atto nel Medio Oriente e fra Russia e Ucraina, vicine oramai ai tre anni di conflitto. Il segnale di come anche il più perfetto dei “codici” possa essere disatteso per motivi che finiscono con il calpestare qualsiasi ragione, evitando il ricorso all’unica forza vera che deve prevalere: quella del dialogo. Una dichiarazione che dunque si ritrova vittima del fallimento della ragione: fin quando sarà così, evitare le guerre sarà molto più difficile.