Da Badia Tedalda alla Maremma: transumanza sulla Via dei Biozzi

Dicono i pastori: “Quando l’Alpe mette il cappello, vendi la capra e compra l’ombrello”

12 Giugno 2022
transumanza

Il mio interesse per la transumanza si è risvegliato poco tempo fa. Avendo scelto quasi a caso un agriturismo maremmano come base per le vacanze estive mi sono ritrovato non nel solito posto attrezzato per turisti ma in una vera e propria fattoria con vacche e pecore che ogni mattina uscivano per andare al pascolo e addirittura con un asinello nella stalla. I pasti venivano preparati con i prodotti dell’azienda agricola e la sera ci ritrovavamo proprietari e ospiti, a cenare tutti assieme in allegria, cosa che mi ha catapultato indietro alla mia infanzia vissuta nel podere di mio nonno. Spesso la conversazione cadeva sul commento alle specialità portate in tavola, piatti dai sapori genuini che credevo perduti assaggiando i quali io e i padroni di casa (o meglio: le padrone) ci accaloravamo in disquisizioni storico/culinarie tipo su di chi fosse la primogenitura del "raviggiolo" (formaggio fresco di vacca o di pecora, delizioso, che in Maremma chiamano raveggiolo), tipico dell’Appennino tosco emiliano romagnolo, portato nel territorio maremmano dai vecchi pastori delle mie parti ai tempi della transumanza.

Già, la transumanza! Una pratica non solo appannaggio dei pastori abruzzesi ma molto comune fra le montagne dell’Appennino tosco-emiliano romagnolo. La curiosità di saperne di più su questo spostamento mi ha portato a... Caterina Bueno, l’etnomusicologa fiorentina (ma lei si definiva “raccatta canzoni”) che nei primi anni 60 ha girato la Toscana, e non solo, per raccogliere e registrare i canti popolari tramandati oralmente di generazione in generazione, il più famoso dei quali è Maremma Amara. Si tratta di una canzone toscana del IXX secolo, legata al fenomeno della transumanza, per cui le greggi in autunno scendevano dagli Appennini alle pianure allora non ancora bonificate e perciò malariche, della Maremma. Caterina ha attribuito a Beatrice di Pian degli Ontani, l’ottocentesca poetessa pastora della montagna pistoiese (che da giovane aveva partecipato alla transumanza) la composizione del brano per quel che riguarda il testoLa musica era una antica melodia probabilmente quattrocentesca che girava e si tramandava, dalle fiere appenniniche fino alla Maremma e chissà a dov'altro.

A parte questa canzone famosissima non solo in Italia (Amalia Rodriguez la regina del “fado” portoghese è stata una delle tante artiste che l’hanno incisa) ci sono canti specifici di ogni zona di partenza dei pastori: “Quando Anderai in Maremma”, conosciuta anche come “Il Pecoraio” per esempio viene dalle antiche Romagne Toscane (dalla fine del 1300 fino al 1923 una vasta parte dell’Appennino tosco emiliano romagnolo ha fatto parte prima del Granducato di Toscana poi delle province di Firenze e Arezzo). Dalla Maremma, esattamente da Pitigliano viene invece “Quando lo Pecoraro va in Maremma” una ninna nanna che inizia dileggiando i transumanti: “Quando lo pecoraro va in Maremma” recita il testo “gli sembra d’esser giudice o notaio / la coda de le pecore è la penna / il secchio de lo latte il calamaio”.


In definitiva la musica, il canto hanno da sempre accompagnato e scandito i percorsi dei pastori che dalla montagna toscana si spostavano annualmente in Maremma, canti melanconici quando non tragici vista la malaria che infestava le mete dei transumanti, infezione che provocava la morte dal momento che non c’erano allora rimedi clinici per combatterla.

La Via dei Biozzi, un percorso (quasi) tutto in casa

I Biozzi sono un’antica famiglia che fin dal basso medioevo aveva possedimenti oltre che nell’alta Valtiberina, anche nella zona di Bagno di Romagna (che come abbiamo rilevato, faceva parte della Toscana) e in Maremma. La famiglia fu per secoli una delle più importanti, influenti e ricche di Bagno di Romagna e tra i suoi componenti numerosi furono gli uomini di governo della locale comunità, i notai, i medici, gli avvocati e gli abati. All’inizio dell’800 i Biozzi acquistarono la fattoria di Viamaggio,(dal nome dell’antica Via Major romana) allora sede della dogana del Granducato di Toscana, che includeva un immenso patrimonio terriero situato tra il Passo di Viamaggio, Badia Tedalda, e la frazione Montagna nel comune di Sansepolcro, comprensivo dell’intero abitato di Viamaggio, delle case coloniche dei dintorni e dei numerosissimi terreni ricchi di pascoli, boschi e coltivi. L’acquisizione rispondeva all’esigenza di disporre di un solido punto di appoggio per le innumerevoli mandrie e greggi che la famiglia possedeva. Non per niente, la famiglia Biozzi (o Biotti) figura presso l’archivio di stato di Firenze con uno stemma araldico nel quale è raffigurata una pecora sormontata da una cometa. Come rilevato da Elda Fontana, depositaria dei documenti riguardanti l’attività della famiglia Biozzi, sono conteggiati come loro possedimenti i poderi di Petreto, Traiano primo e Traiano secondo, Campezzone primo, Campezzone secondo, Palazzetta, Velona e Olmo, che facevano capo a Paolo Biozzi, originario di Bagno di Romagna, abitante a Sansepolcro (esattamente in località Montagna). mentre a Viamaggio i possedimenti che appartenevano ai fratelli Biozzi, Elmira e Guido e ai coniugi Luigi e Lidia erano composti da tredici poderi: Casona, Cella (chiamata anche Palazzo), Cerra, Ciliegiolo, Cocchiola, Dogaia, Ferraiolo, Giuntana, Marzolo, Podere, Pratola casa, Sterpaia e Baldistori. In Maremma c’era poi la tenuta Valentina,acquistata nei primi anni del novecento dal  ramo della famiglia proveniente da Sansepolcro, un antico convento trasformato in fattoria e oggi adibito ad agriturismo, di proprietà di Michele Biozzi denominata appunto La Valentina del Biozzi.

Questa puntigliosa elencazione può dare un’idea sia della vastità dei possedimenti della famiglia che dei coloni e pastori che in essi lavoravano a vario titolo. Visto l’immenso numero dei capi ovini, bovini ed equini che si radunavano ai primi di settembre a Viamaggio, provenendo anche dalle proprietà che i Biozzi avevano dall’altra parte dell’Appennino oltre che dalle toscane, quello che si spostava per accompagnare le greggi nella transumanza era un piccolo esercito di persone. Il raduno alla fattoria di Viamaggio, dopo l’arrivo di tutti gli armenti, iniziava di buon’ora al mattino con la consegna della verga di avellana ai responsabili delle varie mandrie, i cosiddetti vergai, sulla corteccia della quale essi  incidevano dei segni che rappresentavano i fatti salienti che sarebbero capitati alle greggi a loro affidate durante la transumanza, la permanenza in Maremma e il ritorno alla base nel maggio successivo. Una specie di diario per chi, essendo spesso analfabeta, doveva tenere un resoconto della propria attività da riferire ai proprietari al ritorno in Alpe nel maggio successivo. In Maremma il bastone serviva anche a fare la conta delle pecore appena arrivate. Li il vergaio, fatte passare le greggi in una strettoia, ogni cinquanta capi incideva una tacca sulla verga; ogni cinquecento veniva poi incisa una croce.

Transumanza Viamaggio
La transumanza a Viamaggio

Seguiva quindi la benedizione di tutti i branchi riuniti davanti alla chiesa, poi avveniva la spettacolare partenza per la Maremma. In testa al branco, come guida e punto di riferimento per tutte le pecore, c’era il castrato con il suo campano, ai lati pastori e garzoni controllavano il corretto andamento del gregge specialmente nei punti in cui la strada attraversava i coltivi, i ragazzi camminavano avanti e seguivano l’itinerario indicato dagli animali che, una volta percorso, non lo dimenticavano più. L’itinerario di quella che col tempo da via Maremmana sarebbe divenuta, non solo nella vulgata comune ma anche come dicitura ufficiale, La Via Dei Biozzi, si snodava attraverso la Valtiberina fino ad Arezzo dove Il passaggio delle migliaia di capi era straordinario momento di attrazione per i cittadini e di conseguenza, elemento di orgoglio per i pastori.

 

Occorrevano due giornate di cammino per raggiungere il capoluogo provinciale dal momento che in media venivano percorsi circa 25 chilometri al giorno su strade sterrate che spesso dovevano valicare passi appenninici.

L’itinerario proseguiva in Valdichiana, dalla parte di Monte S. Savino, passando poi da Serre di Rapolano, scendendo in Val d’Orcia a San Giovanni d’Asso, proseguendo per l’abbazia di S. Antimo nei pressi di Montalcino, entrando nella Maremma Grossetana a Cinigiano dopo aver lambito le pendici dell’Amiata, arrivando infine alla meta situata dalle parti di Alberese in quella che era allora la zona retrostante l’Uccellina .oggi Parco Regionale della Maremma. In tutto dai sette ai dieci giorni di cammino, con accampamenti notturni presso i poderi dove, per consuetudine, erano soliti fermarsi lasciando al contadino che li ospitava latte e cacio a mo di pagamento. Questa era La Via dei Biozzi.

Il villaggio pastorale

Il percorso delle greggi era scandito dal suono continuo dei campanacci appesi al collo dei castrati, rumore che si attenuava un po’ appena raggiunti i pascoli maremmani. A quel punto la prima operazione intrapresa dai pastori era il riattamento del villaggio pastorale, chiamato vergheria, che aveva nella capanna circolare con tetto conico l’elemento abitativo simbolo. Le vecchie capanne di scarza, (erba palustre che, essiccata, serviva a coprire e rivestire le capanne). durante l’estate, si riempivano di pulci e, a settembre, prima di essere abitate, dovevano essere disinfestate. Questa operazione veniva eseguita con un sistema ingegnoso: tre o quattro muli venivano spinti e chiusi in ogni capanna per un quarto d’ora, qui erano assaliti dalle pulci. Appena lasciate libere, le bestie si rotolavano in uno spiazzo terroso preparato prima e si liberavano dei parassiti. L’operazione era ripetuta per alcune volte, quindi le capanne potevano essere abitate.

transumanza maremma
Accampamento pastorale maremmano

La vita era sicuramente dura in tali condizioni ma uomini e donne riuscivano a trovare il tempo per svagarsi anche partecipando ad improvvisate veglie con gente del posto. Interessante a tal proposito è la testimonianza registrata come quella di Nelide  di Caprile, conservata presso la Pro Loco di Badia Tedalda,

“...Ricordo un inverno. Ero già una ragazza e alla sera per dimenticare la fatica del giorno si andava a ballare. Avrei voluto farlo più spesso ma avevo solo due vestiti: uno per lavorare e uno per cambiarmi. Mi vergognavo ad indossare sempre lo stesso. Mi venne un’idea: cambiargli colore. Comprai il colorante, lo misi assieme al vestito dentro una pentola piena d’acqua bollente e...il vestito non era più lo stesso. Continuai per tutta la stagione a cambiare ogni tanto il colore. Era un’illusione ma ogni volta mi faceva felice e la vita in Maremma mi sembrava meno difficile”.

In Maremma in cerca di lavoro

Nelide fin da bambina si trasferiva in autunno in Maremma con la famiglia, pur non facendo parte dei pastori. Il padre tagliava la macchia mentre lei coglieva le olive. Al seguito delle greggi dei Biozzi infatti si trasferivano in Maremma anche molti lavoratori stagionali che venivano impiegati in vari settori: boscaioli, carbonai, addetti alla mietitura e alla trebbiatura, minatori e ogni altro tipo di lavoro bracciantile. Un capitolo a parte fra gli stagionali merita Benvenuto Piegai, anch’egli proveniente da Badia Tedalda, attivo in Maremma nel tardo ottocento come cacciatore di giorno e bracconiere di notte. È dalla viva voce di un suo discendente Il signor Fulvio Piegai, attuale presidente della Pro Loco di Badia, che ho appreso una storia che lo vide protagonista..

“Era una notte del settembre del 1889. Benvenuto si aggirava nei boschi della Maremma intento a praticare il suo “lavoro” di bracconiere, quando, nel fitto della macchia, si imbatté nel famoso brigante Domenico Tiburzi, ferito ad un ginocchio. Dopo il primo momento di tensione, il brigante, convinto che del bracconiere poteva fidarsi, lo mandò a prendere i medicinali dei quali la sua ferita aveva bisogno compilandone la  lista su un foglio di carta, presso un farmacista fidato. Il Tiburzi godeva di numerosissime connivenze ed era considerato dalla popolazione una specie di Robin Hood della Maremma. Benvenuto trovò il farmacista all’osteria, intento a giocare a carte col maresciallo dei carabinieri del posto. Senza farsi notare dal militare, riuscì a consegnare il biglietto e farsi dare le medicine che portò al brigante. Da allora, tutte le notti, per un intero mese, Benvenuto ripeté la stessa operazione finché il Tiburzi, guarito, per riconoscenza, regalò al Piegai uno dei suoi fucili che lo stagionale di Badia riportò a fare bella mostra di sé in casa sua in Appennino.

La triste fama di Tiburzi, arrivò a “scomodare” la presidenza del consiglio del regno d’Italia, così, su impulso del governo di Giolitti, deciso ad estirpare il brigantaggio,  i carabinieri, dopo tre anni di ricerche, nel 1896 riuscirono a scovare il brigante,  il quale, vistosi scoperto, ingaggiò, nei pressi di Capalbio, un confronto a fuoco nel quale rimase ucciso.

Il prete del posto non intendeva seppellirlo in terra consacrata ma la gente pretendeva, per quello che considerava un eroe, una sepoltura, come ogni altra persona, all’interno del cimitero. Alla fine fu raggiunto il compromesso di inumarlo mezzo fuori e mezzo dentro, di traverso al muro di recinzione del camposanto.

La storia di Benvenuto e del brigante Tiburzi è riportata in “Benvenuto, storie di caccia”, pubblicazione del 1932, scritta da Giovanni Ugolini, padre di Mario e nonno di Alessio, entrambi, in epoche diverse, sindaci di Sansepolcro. Il memorialista, da giovane, aveva visto e ammirato il fucile del bandito in casa del Piegai e ascoltato vari racconti da parte del cacciatore, storie che poi aveva trasposto nel libro.

La Maremmata, Festa del Ritorno

È ancora la testimonianza di Nelide di Caprile a far luce su un fenomeno particolare

“Un tempo eravamo poveri tutti ma forse più poveri dei poveri erano le famiglie degli operai stagionali. I nostri inverni lunghi e pieni di neve ci costringevano all’inattività. Molti in autunno si trasferivano in Maremma con la famiglia. In molti sono rimasti laggiù, specialmente quando l’Ente Maremma assegnò la terra a chi restava”

E ancor più illuminante quella di Carola Cenci raccolta tempo fa dalla nipote, la giovane Sara Pratoni.

“...C’erano persone che avevano una permanenza provvisoria (autunno-inverno) oppure prolungato (per anni).

Giù in Maremma nacque una figlia alla mia bisnonna e per quel motivo dovettero restarci otto anni; all’inizio della guerra erano rientrati a Badia poi, alla fine del conflitto, sono tornati in Maremma.

Ancora ci sono persone come me che hanno parenti in Maremma e occasione per incontrarli era la Maremmata”.

La Maremmata è stata, dal 1969 alla fine degli anni ottanta del 900, il momento del ritrovarsi fra componenti dello stesso ceppo familiare, un’ occasione d’incontro fra chi era rimasto a Badia e chi si era definitivamente stabilito in Maremma.

La Maremmata, detta anche Festa del Ritorno, nasce da un’idea dell’allora sindaco di Badia Tedalda, l’avvocato Danilo Laurenti, il quale, quasi al termine del suo decennale mandato, aveva invitato gli antichi concittadini a tornare, seppur per pochi giorni, nel loro paese d’origine, anche per mostrare come esso si era trasformato e modernizzato sotto l’impulso della sua amministrazione. Tra convegni culturali, musica, spettacoli folcloristici e fuochi d’artificio, i momenti clou della manifestazione erano rappresentati dalla cavalcata, con cavalieri vestiti da butteri che così ricordavano il “passo dell’uscio” cioè l’allontanarsi dal paese natale per motivi di lavoro e da una corsa di cavalli montati a pelo da giovani del posto e da ragazzi che vivevano in Maremma.

maremmata

 

Il sindaco, grazie alle alte conoscenze in ambito politico, aveva fatto le cose in grande per questa prima edizione invitando fra le altre autorità, l’allora presidente del senato Amintore Fanfani. Lo stesso Fanfani, che nel tempo libero praticava proficuamente la pittura, all’arrivo in paese, aveva schizzato a carboncino il profilo della parte alta di Badia con chiesa e campanile e ne aveva fatto dono all’amico sindaco.

Lo schizzo, dall’anno successivo, avrebbe fatto bella mostra di se nei manifesti che hanno annunciato l’avvenimento per tutto il tempo nel quale si è tenuta la festa del ritorno. Molti dei più giovani abitanti di Badia avevano scoperto, nella prima edizione dei festeggiamenti, di avere in comune con quelli che erano tornati per l’ avvenimento, non solo cognomi ma a volte anche nomi evidentemente ereditati da lontani progenitori comuni.

Col tempo la Maremmata aveva assunto importanza sempre maggiore fino a suggellare il gemellaggio di Badia Tedalda con Orbetello per poi arrivare a conclusione venti anni dopo con il progressivo affievolirsi del ricordo.

Un canto ha da sempre unito le due comunità, quello in ottava rima dei poeti a braccio, comune sia in Appennino che in Maremma. Stefano Rossi, cantore in poesia badiale, ha composto un’ottava in onore della Maremmata che inizia così:

“Vi ringraziamo e vi rendiamo omaggio,
in questo giorno per noi così bello
si vuole celebrare il gemellaggio
fra la Badia Tedalda ed Orbetello
e anche cambiando il piano di viaggio
siete arrivati qui al nostro castello
a rimembrare quella antica usanza
dei nostri nonni che e’ la transumanza”.

La Via dei Biozzi... in bicicletta

Dal 2011 la Pro Loco di Badia Tedalda, in collaborazione con l’associazione Fuori dalle Vie Maestre e le pro loco di Cinigiano e Alberese nonché con la collaborazione degli ultimi discendenti della famiglia Biozzi, organizza nel mese di settembre: “In Bicicletta sulle Vie della Transumanza”, un percorso cicloturistico su strade sterrate e antichi tratturi, che ricalca, nelle tappe e nella durata, quello fatto dai pastori sulla Via dei Biozzi. Una manifestazione di successo interrotta solo a causa della pandemia dal 2020 al 2021 ma che vedrà quest’anno la sua riproposizione.

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Abstract
Dicono i pastori: “Quando l’Alpe mette il cappello, vendi la capra e compra l’ombrello”